Il sorriso spezzato: per non dimenticare

Questa è la storia di Larimar, una ragazza di 15 anni piena di vita. Era diligente nello studio e aveva tanti amici. Amava la sua famiglia e la pallavolo, dove si distingueva per talento e passione.

Larimar viveva in un piccolo paese della provincia di Varese con i suoi genitori e i fratelli. Dopo il primo anno di Liceo scientifico, si trasferì con la famiglia in Sicilia. Lì iniziò una nuova vita: nuova scuola, nuovi amici, nuovi compagni di squadra. All’inizio era entusiasta, curiosa di scoprire un mondo diverso, ma presto arrivarono i problemi.

Le ragazze del paese la guardavano con invidia, non sopportavano la sua bellezza e le sue capacità. Larimar era solare, si faceva voler bene, ma proprio questo la rendeva un bersaglio.

Larimar era talmente brava a pallavolo che volevano inserirla nella squadra di Piazza Armerina: ma lei rifiutò per far trionfare la squadra della sua cittadina Enna.

Il primo giorno le viene regalato un braccialetto sul quale, inciampando, si frattura la caviglia. Per lei fu un colpo durissimo: non poteva più allenarsi, non poteva più giocare, e si sentiva esclusa da ciò che amava di più.

Il 5 novembre, mentre era a scuola, scoppiò una lite tra Larimar e un'altra ragazza. Larimar fu pesantemente insultata e quelle parole la ferirono profondamente. I genitori accorsero in suo aiuto, la scuola minimizzò sull’accaduto, considerandolo una “ragazzata”; ma lei aveva pianto tanto e si percepiva che stava male.

I genitori, persone gentili e sempre pronte a sostenerla, cercarono di tirarla su di morale e riuscirono persino a farla sorridere. Tornati a casa, le chiesero se volesse andare con loro a comprare una stufa per l’inverno, ma lei preferì restare a casa. Loro uscirono, ignari che quei 40 minuti sarebbero diventati un incubo.

Al ritorno trovarono la porta di casa aperta. La madre corse dentro e vide la stanza della figlia in disordine, ma vuota. Nel panico uscì in giardino e trovò Larimar impiccata ad un albero. Ma qualcosa non tornava: era inginocchiata, con le scarpe pulite, le mani libere, due giri di corda intorno al ventre e nessun segno di frattura all’osso ioide. Tutto troppo strano, troppo sospetto.

Poche ore dopo la morte comparve un biglietto, consegnato dal fidanzato incitato a parlare dalla sorella più grande di Larimar: “Ti amerò anche nella prossima vita”, firmato “Lari”. Ma la scrittura non era la sua, e lei odiava quel soprannome. Un dettaglio che rendeva tutto ancora più inquietante.

Il 15 novembre, dieci giorni dopo la tragedia, si tenne il funerale nella cattedrale di Piazza Armerina. Centinaia di persone parteciparono, tra lacrime e silenzio. È passato un anno e ancora nessuno ha avuto il coraggio di dire la verità.

Larimar viene ricordata come una ragazza solare, empatica e altruista. La sua risata è ancora impressa nella memoria di chi l’ha conosciuta.

Larimar non si è mai arresa nella vita, ma la sua luce si è spenta.

E allora la domanda resta, pesante come un macigno: quante altre vite innocenti dovranno essere distrutte prima che l’omertà ceda il passo alla verità?

Perché il silenzio non cancella il sangue, e l’indifferenza non lava via la colpa.

Alice Picheca (3ALAV)