Ringraziamo di cuore il Prof. Di Giuseppe per aver scelto il Giornalino per pubblicare il suo inedito.
LA PIANA
Questi pensieri mulinavano nella sua mente, come le foglie catturate dal vento del nord, quando all’improvviso si era trovato di fronte quella casa, le cui imposte non erano state ancora del tutto chiuse, e dalle quali s’irradiava un lume, flebile, quasi impercettibile nell’oscurità del bosco.
Da tre generazioni vi abitava una famiglia di legnaioli, gente semplice e schietta, che la fame e i lutti, regolari e implacabili, avevano indurito. Il padre era morto quando il primogenito non era ancora adolescente. Quattro ne aveva tirati su la madre, da sola, finché almeno i primi due non erano stati in grado di lavorare e di darle un po’ di respiro. Tutte le sere, in passato, ma spesso lo faceva ancora, aveva recitato il rosario chiedendo alla Vergine di risparmiare la vacca, unica autentica fonte di sostentamento per i piccoli. Per il resto si era arrangiata. Le castagne si conservavano facilmente per molti mesi, se venivano fatte seccare a dovere. Il latte, purché dispensato con parsimonia, poteva essere scambiato almeno una volta a settimana con la farina, con cui la domenica il profumo del pane si spandeva nelle stanze fredde e le riscaldava meglio di una stufa. La carne, l’ultima volta l’avevano assaggiata quando Luca, il maggiore, ne aveva portato a casa un pezzo, dopo che aveva lavorato a giornata dal macellaio di Bedero. Era il sabato prima della festa della Madonna, Ra nosta festa, così come la chiamavano i cunardesi gonfiandosi il petto, quasi che fosse loro anche la Madonna del Rosario, non solo la ricorrenza. Era un pezzo di lonza, neanche troppo grande. Non ci si poteva riempire la pancia, no di certo, ma almeno provarne il gusto, farsi inebriare dal suo liquido rossastro, e magari intingervi la mollica. A tutti era sembrata una benedizione e Anna aveva pensato allora tutte le mie preghiere hanno avuto effetto.
Anche Maria era stata contenta. Lei lo era sempre, del resto. Era la più piccola di casa, non aveva ancora diciotto anni. Mangiava come un uccellino e assomigliava ad uno di quei pettirossi che si posano sul davanzale per riprendere fiato e puntano il beccuccio a sondare forse dove gli umani, più per distrazione che per larghezza, possano aver lasciato cadere in terra una briciola di pane raffermo. Maria era così, un vitino strettissimo, la figura flessuosa, inspiegabilmente aristocratica, i capelli dorati che le coprivano le spalle, quando non li raccoglieva in una treccia lunghissima che ormai, come una freccia, indirizzava lo sguardo dove un occhio pudico non avrebbe dovuto posarsi. Quello che colpiva, però, erano i suoi occhi, che si spalancavano o si schiudevano come fessure, in virtù delle emozioni che agitavano il suo cuore. Un castano di velluto, da cui tracimava una dolcezza che avrebbe ammansito il predone più sanguinario. La madre avrebbe dato qualsiasi cosa per renderla felice, per “sistemarla”, lontano da quella catapecchia piena di spifferi nel fitto del bosco. Così pure per i fratelli. Per loro Anna aveva scelto i nomi di tre evangelisti: di Luca si è già detto; Matteo era il secondogenito, quello forse più affezionato alla sorella, col carattere più affine, con il sentimento più sincero. E poi vi era Giovanni. Era stato il padre, in realtà, a scegliere il suo nome. Anna pareva non farcela, il travaglio era cominciato all’alba e il bimbo, allo scoccare della mezzanotte, non ne voleva sapere di venir fuori. L’oscurità sembrava annunciare l’apocalisse per tutta la famiglia quando, finalmente, l’uomo si era deciso ad esprimere il suo voto. Se suo figlio e, soprattutto, sua moglie fossero sopravvissuti, avrebbe chiamato il neonato col nome di Giovanni, in onore del santo. Dopo pochi minuti, i quattro cavalieri che avevano assediato la casa in quella notte illune, si erano dileguati e un vagito era risuonato nella stanza fredda. Si erano dispersi, ma avevano lasciato un segno. Giovanni era cresciuto col dono della morte sulle dita. Sembrava prenderci gusto nel togliere la vita ai piccoli animali che accompagnavano la sua infanzia. Era diventato un cacciatore formidabile, finché c’era stato qualcosa da cacciare. Ma più che il bisogno, lo animava la brama di uccidere. Nei suoi gesti i quattro cavalieri parevano rivendicare qualcosa che era stato loro negato con la sua nascita. Quando non c’era nulla da cacciare, Giovanni si accaniva sui passerotti che zampillavano sugli alberi. Aveva inventato delle trappole ingegnose non solo per catturali: intendeva procurare un eccesso di dolore alle inconsapevoli bestiole, quasi traesse piacere dall’agonia di quegli esserini. Sua madre gliele aveva suonate di santa ragione la volta in cui aveva rinchiuso le creature in una gabbia e vi aveva dato fuoco. Anna se ne era accorta solo quando aveva visto gli uccellini sfrecciare come scintille impazzite per pochi metri davanti alla porta di casa nel loro ultimo tragico volo. La donna non si capacitava di come uno dei suoi figli potesse mostrare una tale crudeltà. Da lei non aveva certo imparato quelle pratiche, e neppure da suo marito. Il bambino era dotato di un talento speciale, quasi fosse l’incarnazione di un angelo sterminatore. Ne aveva chiesto motivo al Signore, nelle sue preghiere, ma ancora l’Altissimo non le aveva dato risposta. La donna era convinta che vi fosse una spiegazione a tutto, era sufficiente cercare bene, sviscerare con cura la volontà di Dio per rintracciare le trame del Suo disegno.
Raramente la cascina della Piana ospitava qualcuno. Un visitatore avrebbe dovuto fermarsi per la notte, qualora avesse deciso di trascorre un po’ di tempo coi ragazzi. L’aspetto lugubre del bosco sul far della sera scoraggiava chiunque volesse fare il viaggio a ritroso verso casa. Era capitato con uno zio, il fratello di Anna, che era venuto a trovarla dopo la morte di Giuseppe. Non c’era un letto in più nella casa, così Matteo aveva dormito con la madre cedendo allo zio il suo giaciglio. Erano trascorsi quasi dieci anni da quando era successo. Lo zio non si era più fatto vedere, se non quando i ragazzi erano scesi a Cugliate per qualche festa d’estate. Era sempre stato strano, aveva pensato Anna fra sé. Non erano mai stati legati da affetto profondo. Quella visita le era sembrata più un’azione risarcitoria nei suoi confronti, che un moto spontaneo di compassione per la morte di suo marito. In fin dei conti, era stato meglio così. Non avrebbe voluto suo fratello in casa, era convinta che non sarebbe stato di aiuto per il pasto quotidiano, anzi, probabilmente si sarebbe rivelato una bocca in più da sfamare. Da anni, ormai, Anna e i suoi figli non attendevano nessuno, soprattutto nelle terribili notti di gennaio, quando il freddo è ancora più spietato e il buio ancora più nero.
Fu una sorpresa, dunque, quando Angelo batté con le nocche sulla porta della cascina. Gli aprì Matteo. Lo osservò per qualche istante, quindi gli chiese chi fosse e se avesse bisogno.
«Un riparo per la notte. Il mio cavallo è stanco e anch’io ho camminato tutto il giorno. Se poteste farmi entrare, ve ne sarei riconoscente. Vi pagherò, per quanto posso.»
Matteo si volse alla madre, quasi aspettasse la sua approvazione.
«Fallo entrare, per carità. È pur sempre un cristiano. Non vorremo dare mica l’impressione di essere come quelli di Bedero! Entrate pure, non siate timido. Se vi va, c’è un piatto di minestra anche per voi.»
Il giovane non si fece pregare. Era sfinito. L’illusione di un ricovero gli aveva spento anche le ultime forze.
«Vi ringrazio, signora. Non vi disturberò a lungo. Domattina riprenderò la strada di casa prima che faccia chiaro. Stasera, prima di coricarmi, salderò il mio debito con voi.»
«Da dove vieni?»
Luca si era preso quella confidenza perché, dall’aspetto, il ragazzo gli era sembrato più giovane di lui.
«Abito a Cunardo. Ho una stalla, ma mi mantengo con un po’ di commercio e lavoro quando ce n’è bisogno per chi me lo chiede.»
Angelo si avvicinò al camino. Il tepore del fuoco lo rinfrancò all’istante. Aveva dimenticato il semplice godimento di ristorarsi davanti al focolare. Ne aveva preso di freddo. Ore e ore davanti al suo banco, nell’attesa che qualcuno mostrasse interesse per le sue cianfrusaglie. Riprese colore e gli venne da togliersi il pesante pastrano che lo aveva difeso contro l’inverno. Anna lo squadrò con l’occhio che deve saper prevenire qualsiasi pericolo per i suoi cuccioli. No, non pareva minaccioso. Tutto sommato, doveva essere un buon diavolo, capitato lì per caso nella notte. A ben guardare, anzi, si poteva dire ben proporzionato, con un paio di spalle larghe, sintomo dell’abitudine alla fatica. La carnagione bruna, benché fosse inverno, rivelava che il ragazzo stava all’aria aperta, e che il poco di sole che scaldava la terra in quei mesi arcigni gli imbruniva la fronte. Si poteva definire avvenente, malgrado fosse a tutti gli effetti un morto di fame. Ma del resto, meditò la donna, che cosa si poteva dire di tutti loro? Forse che erano dei signori? Tanto valeva essere solidali fra povera gente, senza invidie e malvagità.
«Come vi chiamate?»
«Angelo Pirinoli» rispose di buon grado il giovane. «Non è che potrei avere quel piatto di minestra di cui parlavate prima? Sono a completo digiuno da ore e mi sento quasi svenire.»
«Ma certo!» replicò Anna, «Anzi, scusate se sono stata indiscreta con tutte queste domande. Sapete, non passa molta gente di qui, e la curiosità ha avuto il sopravvento. Favorite, prego, non vi sazierà, ma almeno occuperà una parte del vostro stomaco.»
«Dio vi benedica! Aspiravo a un riparo, non avrei immaginato di trovare anche la cena.»
Maria gli porse un cucchiaio. Lo fece con una tale lentezza che lo sguardo di Angelo non poté fare a meno di scivolare sui suoi occhi. Si creò un istante di silenzio imbarazzato, nel quale i due giovani vennero come illuminati da quel contatto. Nessuno osò fiatare. Poi Maria si voltò, per dissimulare il suo disagio e soprattutto per scongiurare quello dell’ospite. Il suo incarnato, tuttavia, reso ancora più pallido dalla stagione avversa, tradì un’ombra di rossore quando si trovò sotto il lume della candela.
«Non amiamo punto i forestieri!»
Giovanni frantumò quella sospensione. Era tutto troppo idilliaco per lo straniero, neanche fosse un ospite atteso. Lo conosceva da pochi minuti, ma non gli andava per nulla a genio. Ora si era messo, per di più, a fare il cascamorto con sua sorella.
«Possiamo ospitarti solo per questa notte. Domani dovrai alzare i tacchi. Non vogliamo perdigiorno da queste parti.»
Non furono tanto le parole, quanto il tono insinuante a ferire Angelo. L’ultima cosa che si potesse dire di lui era che fosse un perdigiorno. A maggior ragione quando aveva già affermato che se ne sarebbe andato l’indomani, alle prime luci.
«Non è mia intenzione approfittare oltremodo della vostra generosità» si schermì, rivolgendosi alla padrona di casa, senza degnare di uno sguardo il suo accusatore.
«Se voleste indicarmi un angolo dove possa stendermi…»
Anna gettò un’occhiataccia a Giovanni.
«Ma certo!» si scusò in vece del figlio. «Vi faccio portare subito una coperta. Potete coricarvi qui, in cucina. È il locale più caldo della casa e rimane tiepido anche nelle ore centrali della notte.»
Angelo venne rassicurato dalle parole della donna. Dimenticò quel momentaneo turbamento e prese a mangiare con voracità. In men che non si dica, terminò la pietanza. Si accucciò poi nel cantuccio che la donna gli aveva indicato e non proferì parola finché la casa a poco a poco non si spense. Dal suo angolo, il giovane seguì i movimenti abitudinari delle donne che rigovernavano la cucina, udì lo strepito delle stoviglie nell’acquaio, e avvertì il tepore intrappolato dai muri che scemava, dileguandosi come il fumo delle candele. I maschi di casa non si degnarono di congedarsi da lui: solo Matteo, che lo aveva fatto entrare, si limitò ad un cenno prima di salire lungo la scala buia. La madre, al contrario, gli chiese per due volte se avesse ancora bisogno di qualcosa, quasi si sentisse in debito per l’atteggiamento ostile dei figli. Angelo la rassicurò che stava bene e che non gli mancava nulla. Insistette perché la donna gli presentasse il conto per il suo disturbo e per l’alloggio, ma Anna gli fece cenno con la mano che non doveva preoccuparsi.
Prima di salire in camera sua, Maria gli sussurrò un «buonanotte» tanto lieve da non turbare la fiamma di un moccolo. La ragazza era l’ombra di sua madre, non faceva un passo senza l’assenso della donna, quasi avesse timore di qualunque cosa e si sentisse in dovere di rendere conto in ogni momento delle sue azioni.
«Spegnete pure il lume quando volete» gli disse Anna, «non vi disturberà più nessuno fino a domattina.»
«Spegnetelo voi, ho voglia solo di dormire. Mi attende una giornata pesante anche domani» le rispose il giovane.
La donna soffiò sullo stoppino e col suo moccio acceso raggiunse il piano superiore.
Il fischio del vento giungeva flebile dall’esterno. Per quanto vecchia, la cascina doveva essere stata fatta a regola d’arte. Dagli infissi non penetrava uno spiffero e i muri spessi proteggevano dall’umidità del bosco. Dal piano superiore si intuivano le azioni che precedevano la notte. In un attimo la casa fu avvolta dal silenzio. Angelo non fece in tempo a sdraiarsi, appoggiando il capo sulle mani giunte sotto la guancia, che si assopì.
Gli era parso di essersi appena addormentato quando una mano gelida e delicata lo destò. Non bastò un solo tentativo, il ragazzo dovette essere scosso varie volte prima di aprire un occhio. Con sua immensa sorpresa davanti a lui, rischiarata dal bagliore di una piccola candela, si trovava Maria. Angelo per un istante fu convinto di sognare. Spesso le ultime impressioni che abbiamo ricevuto prima di addormentarci si trasformano nella trama dei nostri sogni. Le tempie gli pulsavano. Sbatté ripetutamente le palpebre per accertarsi che non stesse ancora dormendo, quindi dovette ammettere la realtà di ciò che stava accadendo. Inginocchiata davanti a lui, in una mano un lume e l’indice dell’altra sulle labbra a pregare di far silenzio vi era la giovane.
«Non fare rumore, per carità!»
C’era qualcosa di più di una semplice richiesta. Quelle parole avevano il tono della supplica ed erano accompagnate da un senso di timore e di angoscia.
«Che ore sono?» abbozzò Angelo. Pronunciò quelle parole sottovoce e con un certo imbarazzo.
«Non lo so» gli rispose lei, «so solo che dormono tutti da un bel po’. Devono essere almeno le due o le tre. Ho aspettato finora perché volevo essere sicura che non mi sentisse nessuno. Scusa se ti ho svegliato.»
Angelo si tirò su, appoggiandosi di lato su un gomito. Che fosse una circostanza alquanto singolare era dire poco. Eppure, ora che la sua vista si abituava piano piano all’oscurità, riusciva a seguire una traccia del viso delicato della ragazza e, soprattutto, coglieva la patina tremula che rivestiva le sue iridi.
«Che cosa vuoi?»
Forse era stato un po’ brusco, tuttavia non ebbe modo di verificare la reazione di Maria: la sua espressione era completamente velata dall’oscurità.
«Portami via con te.»
Il tempo di registrare quelle parole e sul volto del giovane si dipinse lo stupore. Che razza di richiesta poteva essere quella? Si trattava forse di uno scherzo? Eppure, fin dal primo momento la ragazza gli era parsa tutt’altro che frivola. I suoi gesti, la postura, le espressioni del suo viso la rendevano molto più assennata di quanto non dimostrasse la sua età.
«Che cosa stai dicendo? Perché vuoi venire via con me?»
La mano di Maria andò a cercare quella di Angelo, appoggiata a terra. Gliela strinse.
«Ti prego, portami via di qui! Non posso resistere un solo giorno ancora. Ho pregato tanto che venisse qualcuno e, forse, le mie preghiere sono state esaudite. Prima che si sveglino, prima che si accorgano, ti prego, andiamocene!»
Anche se non la vedeva completamente, Angelo colse la concitazione con cui quelle parole venivano pronunciate. Non avrebbe potuto far finta di nulla e voltarsi dall’altra parte. Non si trattava di una bravata. La creatura che si trovava di fronte a lui esprimeva una pena sincera. Tentò comunque di prendere tempo.
«Come facciamo ad andarcene ora, nel cuore della notte? Non si vede un accidenti là fuori! Se smette di tirare il vento, è facile che si metta a nevicare. E poi, non posso fare una cosa simile a tua madre. È stata tanto gentile con me. Che cosa penserebbe se ti portassi via? Non sarebbe giusto. E i tuoi fratelli, poi?»
Maria iniziò a singhiozzare sommessamente. I suoi occhi luccicavano nella semioscurità.
«Ma non ti rendi conto che è proprio da loro che voglio scappare!»
Angelo si appoggiò con la schiena al muro. Fu assalito dai brividi. Ora si trovava alla stessa altezza della ragazza. Malgrado non riuscisse a distinguere nitidamente il suo viso, voleva guardarla negli occhi.
«Perché? Che cosa ti hanno fatto?»
Maria si avvicinò a pochi centimetri dal volto di Angelo.
«Giovanni mi vuole uccidere!»
Il ragazzo avvertì il suo fiato caldo sulle labbra.
«Come facciamo? Sveglieremo certamente qualcuno. Non possiamo aspettare fino a domani?»
Il viso della ragazza non accennò a indietreggiare e continuò a fissarlo.
«Se resto qui un giorno di più, muoio!»
Angelo controllò che non ci fosse nessuno. Il rischio era troppo grande. Dalle stanze di sopra nemmeno un fiato. La ragazza tremava. Il giovane non aveva capito proprio niente. Aveva creduto che, pur nella loro austerità, i membri di quella famiglia godessero di una certa armonia. Non aveva immaginato che sotto quel sorriso timido, fra le buone maniere della madre e la scontrosità dei fratelli, Maria nascondesse un disagio così forte, un’oppressione tanto cupa.
Il sonno non lo aveva ristorato. Alla stanchezza pesante, si era aggiunto anche un doloroso cerchio alla testa, frutto senz’altro delle scarse ore di riposo. Si diressero alla porta. La giovane fece scattare silenziosamente il chiavistello. Solo un sibilo pervase la cucina addormentata. I due ragazzi uscirono. Maria si aggrappò al braccio di Angelo. Fuori il vento fischiava e recise il flebile lume con cui si erano illusi di orientarsi, quasi disapprovasse quella fuga improvvisata. L’oscurità li avvolse. Maria fece cenno ad Angelo di accostarsi allo spigolo della cascina, quello rivolto a nord. Forse da quella parte sarebbe stato più semplice individuare il sentiero.
Fu allora che una lama colpì il giovane alla gola.
Istintivamente Angelo si portò le mani sulla ferita da cui, inarrestabile, aveva preso a sgorgare il sangue. Un’altra coltellata lo raggiunse allo stomaco, lasciato indifeso. Il giovane si accasciò sulle ginocchia, più incredulo che angosciato. La paura non fece in tempo ad invaderlo. Il suo sangue aveva già completamente impregnato il mantello e gli indumenti. Mentre lasciava che la morte lo piegasse lentamente su un fianco, quel poco di vita che gli rimaneva gli consentì, malgrado una caligine sempre più spessa gli offuscasse la vista, di riconoscere distintamente il volto compiaciuto di Giovanni che brandiva il coltello con cui si scannano i maiali, e quello atterrito di Maria che lo osservavano mentre chiudeva gli occhi, lui che aveva visto morire gente molto più anziana, e che l’idea della morte non lo aveva mai neppure sfiorato.
Giovanni ripulì con decisione la lama contro il pastrano della vittima.
«Va’ dentro!» ordinò alla sorella con voce atona.
Maria, senza battere ciglio, ripercorse la via che l’aveva resa involontaria complice del misfatto. Non accennò nemmeno a ribattere, non disse una sola parola. Non voleva saperne di quello che suo fratello avrebbe fatto del cadavere.
Gli occorsero almeno due ore per sistemare tutto. Giovanni trascinò il corpo a un centinaio metri dalla cascina, sotto la volta scheletrita dei castagni. Si sapeva muovere bene al buio. Era stato ore e ore appostato sotto gli alberi o nascosto fra i cespugli nella speranza che qualche riccio o qualche scoiattolo gli passasse sotto tiro per catturarlo e divertirsi un po’. Conosceva ogni centimetro di quel lembo di terra. Avrebbe potuto stanare qualunque animale vi si fosse annidato, sottrarre nidiate intere di volpacchiotti approfittando dell’assenza della madre. Era lo spirito malvagio della foresta, uno che a contatto con la gente diventava taciturno, provava imbarazzo, e non vedeva l’ora di ritrovare il silenzio carico di tensione dei boschi per sfogare la sua natura. Giovanni avrebbe potuto uccidere qualunque cosa. Non era bravo a fare nient’altro. Sua madre si lamentava spesso con lui perché non sapeva eseguire con attenzione i piccoli compiti che gli assegnava, tanto che aveva rinunciato ad avvalersi dei suoi servigi. Il ragazzo era insofferente agli ordini, dava sempre l’impressione di essere distolto da chissà quale occupazione fondamentale quando gli veniva chiesto qualcosa. Per lo più non si trattava di incombenze, era l’ossessione per la morte a imprigionare la sua mente. Nei suoi vent’anni anni di vita non si era appassionato a nessun tipo di professione, risultava mediocre in qualsiasi attività. Tranne una. Anna aveva cercato di negarlo a sé stessa, aveva chiuso a doppia mandata quel pensiero in un antro remoto della coscienza. Una madre non poteva accettare che suo figlio fosse nato per uccidere, che l’unico abito che sapesse indossare fosse quello dell’assassino. Aveva tentato di sradicare quella convinzione, lo aveva sperato, si era ripetuta ma sì, quando crescerà cambierà. Non era successo. Tutt’altro. L’indole omicida di Giovanni si era inasprita col tempo, la sua inclinazione alla morte si era raffinata, tanto da rasentare la perfezione.
L’aspetto più increscioso dell’assassinio era sbarazzarsi dei cadaveri. Non poteva certo seminare di carcasse i sentieri o le porzioni di bosco attorno casa sua! Il terriccio morbido sotto gli alberi si prestava come nessun altro all’occultamento. Non era difficile scavare una fossa abbastanza profonda per cancellare ogni traccia. Il problema, al massimo, erano le radici: aumentando di volume, potevano riesumare resti organici che sarebbe stato opportuno tenere sepolti. Per questo Giovanni trovava più semplice dissezionare i cadaveri da inumare. Membro a membro, i resti degli animali occupavano meglio lo spazio. Giovanni, prova e riprova, aveva affinato l’arte della dissezione anatomica e si era reso conto che le bestie da morte sporcavano di meno. Senza vita, infatti, il sangue non zampilla, dunque ha minore possibilità di macchiare i vestiti, rendendo il lavoro considerevolmente più agevole. Nessuna spiegazione da dare alla mamma per una camicia sporca di liquido ematico o per un paio di pantaloni da buttare. Tranne ora. Sarà stato perché aveva affondato il coltello al buio, ma non aveva saputo calcolare l’intensità e la direzione del fiotto che gli aveva imbrattato i panni. Ma ci avrebbe pensato più tardi, con calma.
Giovanni dissezionò il cadavere di Angelo e lo ripose accuratamente pezzo per pezzo nella buca che aveva preparato dandoci dentro mezz’ora a forza di braccia. Ad uno sguardo superficiale, il bosco sarebbe parso tale e quale era stato fino a quel momento, avvolto com’era quasi sempre dalla penombra. Le piogge primaverili e la nuova vegetazione che avrebbe ricoperto il terreno nel corso dell’estate sarebbero stati i principali alleati del carnefice. Certo, Maria avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa. Ma quella era l’ultima cosa che preoccupava una mente lucida e calcolatrice come quella di Giovanni. Nessuno avrebbe cercato un morto di fame come il forestiero e, qualora fossero state fatte delle indagini, nessuno si sarebbe sognato di spingersi fino alla Piana. La polizia avrebbe fatto qualche domanda ai familiari, ai parenti più stretti, magari avrebbe torchiato qualche buontempone di uno dei paesi che il disgraziato frequentava, ma nulla di più. Il caso poco a poco sarebbe finito nel dimenticatoio e archiviato fra le innumerevoli sparizioni irrisolte. Non fu difficile infine far sparire il carro e allontanare il ronzino lasciandolo vagare nei boschi, alla mercé dei lupi.
Restava da convincere Maria. Non che quella stupida avesse chissà quali grilli per la testa, però avrebbe potuto lasciarsi sfuggire qualcosa con la mamma, una frase, una battuta, mentre erano sole e l’angoscia le comprimeva i polmoni. Se sua madre avesse saputo che lui, oltre a tormentare gli animali, ora si dilettava anche coi cristiani, come minimo lo avrebbe sbattuto fuori di casa. Quell’ipotesi avrebbe rappresentato un problema serio per uno che non sapeva fare nulla, ma proprio nulla. Si sarebbe dovuto trovare un alloggio, un’occupazione e, Dio ce ne scampi, sarebbe stato costretto a intessere nuove relazioni, a darla ad intendere a qualcuno per cui lui, in condizioni normali, non avrebbe mai mostrato il minimo interesse. Era quello che assillava maggiormente Giovanni mentre rientrava in casa e riguadagnava lentamente la sua stanza. Non riusciva ad essere accondiscendente con le persone. Non gli interessava nessun tipo di discorso che potesse scaturire dalla bocca di chiunque. Non aveva mai nemmeno nutrito interesse per le donne. Un impegno coniugale comportava dei doveri: sottostare ai bisogni, ai gusti e, soprattutto, al giudizio di una moglie. No, non faceva per lui. E tutto per cosa? Quando ne sentiva l’urgenza, si acquattava dietro il gigantesco abete a nord-est e dava sfogo al suo istinto. Sua sorella faceva il bagno tutti i sabati, nel grande catino. La madre chiudeva accuratamente porte e finestre quando succedeva, ma era all’oscuro di tutti i pertugi che i vecchi infissi potevano offrire. Aveva spiato sua sorella fin da quando era bambina, l’aveva vista crescere, prendere forma, riempirsi man mano, e quello gli bastava. Sognava di sostituirsi ad Anna quando Maria stava in piedi nel catino. Immaginava di posare le sue mani dove passavano quelle della donna. Si illudeva che alla giovane sarebbe piaciuto. Nelle notti d’inverno, quando non c’era niente, ma proprio niente da fare, si coricava presto e vagava con la fantasia, fino a quando, sfinito, non prendeva sonno, spesso con la mano infilata nei pantaloni.
Doveva fare in modo che stesse zitta, che non le uscisse neanche una parola. Con nessuno. Chi gli garantiva che Maria non avrebbe tentato di andarsene di nuovo, magari se fosse capitato lì un altro viandante, un cafone di uno dei paesi insignificanti che agonizzavano ai piedi della montagna?
Giovanni era stanco, il lavoro lo aveva provato come non gli era mai successo. Del resto, si trattava pur sempre di una preda diversa dalle solite, più grande, più pesante. Rifletteva, tuttavia, che far fuori un uomo non era poi tanto diverso dall’ammazzare una gallina o un gatto o un tordo. Non procurava nessuna particolare emozione, la stessa luce che si spegneva man mano negli occhi, la vita che volava via, chissà dove. Giovanni si era spesso interrogato su quella scintilla che animava il corpo, su quel barlume di eternità che chiamavano anima. In un attimo, tutte le funzioni di un organismo sano si azzeravano, il vigore della gioventù svaniva; su quell’involucro, che fino a qualche istante prima si muoveva e si agitava, calava un sipario oscuro che lo rendeva inerte. Che cosa infondeva la vita? Perché era così facile toglierla? Nei rari momenti di meditazione, spesso appena successivi a un delitto, Giovanni si scopriva interessato ai palpiti della vita, alle cause della morte, al funzionamento imperscrutabile dell’organismo. Non durava che una manciata di secondi, qualche istante in cui lui si comportava come uno scienziato che contempla il suo esperimento. Poi tutto tornava normale e calmo.
Certo, ora si sentiva fiacco. Non si trattava del normale affaticamento dovuto alle operazioni che aveva compiuto nella notte. Mentre si sfilava i vestiti di cui avrebbe dovuto sbarazzarsi prima possibile, aveva come l’impressione che gli occhi gli si inumidissero. Doveva proprio andare a letto. Al resto, a quello che avrebbe dovuto fare con Maria, avrebbe pensato l’indomani. Aveva solo bisogno di una bella dormita. Nulla rigenera come un bel sonno. Riguadagnò il letto, nel silenzio profondo della casa, come aveva fatto tante altre volte. Non gliene importava nulla dei fratelli, l’osso duro era sua madre che avrebbe potuto sospettare qualcosa. Se la sarebbe presa con lui, avrebbe di sicuro dato ascolto a quella scema di Maria. Maria. Per Giovanni quella ragazza era un vero e proprio mistero. Era attratto da lei, lo era stato fin da quando erano bambini. Eppure, sarebbe stato meglio che Maria non ci fosse, tutto sarebbe stato più semplice. Gli offuscava la mente, anche quando avrebbe dovuto essere lucido. Giovanni non aveva visto molte ragazze, di fatto non ne aveva mai conosciuta alcuna. Solo Maria. Era così bella. Che cosa credeva di fare quel cafone? Portarsela via? Andarsene con lei? Chissà ora che cosa stava pensando, sempre che la sua anima non fosse già trasvolata in qualche altro posto. Giovanni ricordava perfettamente il momento in cui l’anima di Angelo si era staccata dal corpo. Era stato quando aveva affondato il coltello nello stomaco. Per un istante gli occhi del giovane avevano scrutato i suoi, poi si erano spenti e l’idiota aveva esalato l’ultimo respiro sulla sua faccia. Lo aveva accompagnato mentre si accasciava a terra, quindi aveva estratto la lama. Se si concentrava, avvertiva ancora la sensazione calda di quel’ultimo fiato sulla pelle. Nulla gli dava più soddisfazione. Era la prova della resa, la manifestazione della sua superiorità, di quanto fosse stato furbo, molto più scaltro e audace della sua preda. Ora ci mancavano i colpi di tosse. Aveva cominciato un’ora prima a tossire e gli pareva che non fosse la solita infreddatura. Poca roba, comunque, tempo un paio di giorni si sarebbe completamente ristabilito.
Gli esperti non erano concordi. C’erano stati studi approfonditi, ma nessuno era stato in grado di risalire alle cause dell’epidemia. Forse era stata anche la guerra che per quattro anni aveva falcidiato la popolazione mondiale e aveva inevitabilmente indebolito le difese. Se poi si aggiungevano le cattive condizioni igieniche, la povertà, la denutrizione, il quadro si faceva sempre più completo. Dall’autunno del 1918 quella che i giornali avevano definito come influenza “spagnola” aveva contagiato mezzo miliardo di persone. Qualcuno sosteneva che il virus provenisse dalla Cina e che avesse cambiato forma nel corso degli anni e si fosse reso così tenace proprio alla fine della guerra mondiale. In Europa aveva mietuto milioni di vittime. Il contagio avveniva in forma aerea, con un semplice starnuto o un colpo di tosse. Sarebbe bastato un respiro. Molti non vi facevano caso ma poi, quando si trovavano immobilizzati nel letto ad esprimere le ultime volontà, si ricordavano di quanto fossero stati avventati, di come la promiscuità avesse favorito il contagio, e recriminavano sulla loro dabbenaggine.
Chissà se Giovanni era animato dagli stessi inquietanti pensieri. Il sonno non lo aveva rigenerato così come lui aveva sperato, anzi. Non aveva la forza di tirarsi in piedi, si sentiva svuotato, completamente inerte. Sua madre era andata a sincerarsi delle sue condizioni quando non lo aveva visto comparire la mattina presto, come al solito. Normalmente Giovanni aveva una fame da lupi. Non si sentiva mai completamente sazio, anche quando Anna era convinta di avergli riempito il piatto a dovere, cosa che non avveniva con regolarità. Invece, quella mattina, non si era proprio alzato. Di solito si sedeva sulla cassapanca della cucina e aspettava che lei gli servisse qualcosa nella scodella. Anna era salita al piano di sopra e lo aveva trovato ancora a letto, immobile.
«Non stai bene?» chiese delicatamente. Suo figlio non accennò neppure una risposta. Era voltato sul fianco, dalla parte opposta. Anna gli si accostò con una nota di apprensione. Giovanni emetteva dei respiri lenti. La donna istintivamente gli appoggiò una mano sulla fronte. Scottava. Andò subito a svegliare Maria. Possibile che quella mattina nessuno avesse voglia di alzarsi? Anna scosse la ragazza.
«Tuo fratello ha la febbre alta, mi devi aiutare.»
Maria aveva gli occhi cerchiati da occhiaie scure e pareva distante mentre sua madre le parlava. Anna non dette peso alla cosa, l’aveva svegliata con decisione e senz’altro l’aveva distolta da qualche fantasia che sopraggiunge nel sonno prima dell’alba. La giovane non emise un suono. Si limitò a buttare in là le coperte pesanti e ad uscire dal suo letto.
Il caso di Giovanni aveva fatto dimenticare ad Anna che in cucina si trovava un ospite. Le venne in mente solo quando ebbe sceso le scale. Credeva di scorgerlo accucciato a lato del camino, esattamente dove si era coricato la sera prima. Fu sorpresa di non vedere nessuno. Il locale era vuoto. Pareva anzi che nessuno vi avesse trascorso la notte. Immaginò che il ragazzo fosse uscito, magari per sgranchirsi le ossa e per tirare una boccata d’aria gelida. Non la sfiorò neppure l’idea che se ne fosse andato. Si rivolse a sua figlia.
«Va’ a vedere se è fuori.»
Maria era solita ubbidire prontamente ad un ordine di sua madre. Stavolta dette l’impressione di esitare. Pareva riluttante a varcare la soglia di casa. Finalmente uscì, ma tornò quasi subito.
«Non c’è nessuno, mamma.»
Anna si asciugò le mani con cui stava sciacquando una scodella.
«Fai un giro intorno alla casa! Se metti solo il naso fuori dalla porta, chi credi di trovare?»
Maria finse di darle ascolto. Avrebbe eseguito meccanicamente quel che sua madre le avesse ordinato di fare. Non avrebbe mai scoperto nulla, almeno non da lei. Non aveva chiuso occhio tutta la notte. Continuava a rivivere la scena che le si era spalancata davanti qualche ora prima. Lo vedeva arrestarsi come centrato da un proiettile, tremare per qualche istante quindi accasciarsi senza emettere un suono. Non poteva scorgere il volto dell’assassino, protetto dall’oscurità. Ma non l’aveva nemmeno sfiorata il dubbio che potesse essere qualcun altro. L’orrore l’aveva impietrita, poi le parole di suo fratello l’avevano riscossa. Non aveva avuto il coraggio di guardarlo negli occhi. Cercava sempre di evitarli. Maria non avrebbe saputo descrivere il colore degli occhi di Giovanni: quando ci pensava, nella sua mente si componeva solo l’immagine di due pozze nere, vessilli dell’inferno. Le labbra sottili, la bocca larga come uno squarcio che non si rimargina, che lasciava indovinare la fila dei denti come una tagliola Se sua madre avesse toccato la stoffa grezza del cuscino, l’avrebbe trovata completamente umida. Il pianto le aveva gonfiato gli occhi, per il resto si era limitata a mordere le coperte per soffocare il suo tormento.
«Non c’è nessuno, mamma, ho guardato bene.»
Maria sapeva che, malgrado non avesse setacciato il perimetro della casa, nessuno avrebbe potuto smentire le sue parole.
«Che strano» rifletté Anna ad alta voce, «sembrava tanto una brava persona…»
Il suo tono tradiva una certa delusione. Possibile che si fosse sbagliata in modo così grossolano? Possibile che non avesse colto la possibilità che quel giovane volesse solo approfittare della sua generosità? Erano tempi duri e non ci si sorprendeva più di nulla. Evidentemente Angelo, così le pareva che si chiamasse, si era svegliato di buonora e, ristorato dal sonno, aveva pensato bene di svignarsela senza sborsare un soldo. Che poi Anna non gli avrebbe chiesto un centesimo. Che cosa avrebbe dovuto far pagare a un ragazzo per un piatto di minestra e un angolo freddo della sua cucina?
La preoccupazione per Giovanni la distolse da quei pensieri. Maria l’avrebbe aiutata a preparare una bacinella di acqua gelida e dei panni da appoggiare sulla fronte rovente di suo figlio, nella speranza che la temperatura si abbassasse. Se non fosse andata così, avrebbe mandato Luca a chiamare il medico. Avrebbe atteso fino alle prime ore del pomeriggio.
Dopo mezzogiorno le condizioni di Giovanni peggiorarono. La sua fronte continuava a bruciare, ciò nonostante il suo corpo era scosso da brividi violenti. Il suo respiro era sempre più affannoso. Ogni tanto pronunciava qualche parola sconnessa: ad un tratto lanciò un urlo, come se nel sonno fosse stato torturato dai diavoli. I fratelli accorsero al suo capezzale. Gli si avvicinarono, provarono a scuoterlo, lo chiamarono con agitazione crescente. Matteo gli prese la mano. Contrariamente alla fronte, era gelata.
«Bisogna chiamare il dottore, mamma, questo qui rischia di andare al Creatore.»
Da qualche ora Anna aveva smesso di parlare. Non riusciva più nemmeno a svolgere le solite faccende. Si muoveva senza una logica per la casa, ripetendo le azioni che aveva già compiuto. Maria stava seduta sulla sua sedia, quella vicina alla finestra, e la osservava senza dire nulla.
Finalmente Luca si decise ad andare a chiamare il medico. Tornarono dopo un paio d’ore. Il dottore aveva ormai una certa età e si muoveva a fatica per i sentieri del bosco. Entrò tutto trafelato in casa. Anna lo accolse con sollievo e lo condusse all’istante nella stanza di suo figlio.
Erano più di trent’anni che esercitava con abnegazione e scrupolo la professione, aveva curato centinaia di disgraziati e nella valle almeno un cristiano su tre lo aveva fatto nascere lui. Ne aveva viste di cotte e di crude. Bambini portati via dalla sera alla mattina dalla menengite fulminante. Altri uccisi dal botulino. Non contava poi quelli che erano morti di parto, spesso insieme alle madri, con le lenzuola intrise di sangue. Per le malattie più rare i sintomi talvolta si presentavano in maniera ambigua e non era semplice fare la diagnosi. Davanti al respiro affannoso di Giovanni, tuttavia, appoggiato il palmo della mano sulle sue tempie roventi, il dottor Larghi non ebbe il minimo dubbio. Sul suo volto si dipinse un’espressione desolata.
«È spagnola.»
Fu come una frustata che irrigidì la schiena dei familiari. Anna e gli altri ne avevano sentito parlare, sapevano che nei mesi precedenti, soprattutto fra l’autunno e l’inverno, ne era morta a frotte di gente. Luca, che era quello che si spostava di più, aveva raccontato che molti si ammalavano senza un perché e che morivano come le mosche. Aveva detto che non c’era più nemmeno posto nei cimiteri. L’unica raccomandazione dei medici era quella di restare a casa il più possibile, di muoversi solo se necessario. Non si conoscevano le cause di quella sciagura. Pareva un castigo divino. C’era chi ci credeva e si pentiva dei suoi peccati, nella vana speranza di essere risparmiato dal contagio. Il morbo si mostrava alquanto democratico, non guardava ai titoli, al denaro, all’estrazione sociale, alla cifra morale delle vittime. Prendeva tutti, indistintamente. E nessuno, nemmeno i santi, sapeva come fermarlo.
Il medico avvertì la sorpresa, sostituita immediatamente dal panico che assalì i presenti. Rimase lucido, del resto quello era il suo dovere.
«Non dovete toccarlo. Non ho buone notizie né per lui né per voi. Se gli siete stati vicino, probabilmente vi avrà già contagiato. Mi dispiace, ma ne ho visti troppi così. Dovete prepararvi: è spacciato.»
Anna emise un grido straziante e scoppiò in pianto. Si accasciò sulle ginocchia, i figli cercarono di sostenerla. Il dottor Larghi le posò una mano sulla spalla, scossa dai sussulti.
«Dovete prepararvi al peggio. Cercate almeno di salvarvi voi altri.»
Non c’era molto altro da aggiungere. Anche per il medico sarebbe stato meglio alzare i tacchi per evitare la malattia. Si accomiatò con un cenno del capo e uscì da solo.
Dopo quell’attimo di smarrimento cieco in cui il mondo le era crollato addosso tutto insieme, Anna decise che si sarebbe fatto a modo suo. Non avrebbe lasciato suo figlio da solo a combattere con la spagnola. Asciugati gli occhi con il panno della cucina, si recò al piano di sopra ad assistere il malato. Prima, però, impartì precise istruzioni ai figli.
«Ce l’ha portata quello là, quello che è venuto ieri, non c’è altra possibilità. Forse ce l’abbiamo tutti. Dobbiamo stare isolati: se qualcuno non l’ha presa, stando insieme rischia di beccarsela. Ognuno di voi occupi un locale e aspetti che si manifestino i segni. Forse Dio qualcuno di noi lo risparmierà. Io vado da vostro fratello.»
Sarà stata la concitazione del momento, l’apprensione per le parole del dottore, la suggestione che afferra chiunque nei momenti di particolare tensione emotiva, ma Luca e Matteo si sentivano lacrimare gli occhi e percorrere le membra dai brividi.
Giovanni spirò verso le sei di sera, proprio lui che aveva sempre pensato che una bestia piccola non avrebbe mai potuto mangiarne una grossa. Il buio aveva già inghiottito la cascina della Piana. I fratelli lo seppero quando Anna scoppiò a piangere, dopo averlo accudito per ore, appoggiandogli il capo sul petto per avvertire il battito del cuore. Il respiro di Giovanni si era fatto man mano più lento e pesante, fino a diventare rado. Ad un tratto il suo torace non si era sollevato più e sua madre aveva compreso.
Maria stava bene. A parte il ricordo della notte precedente poteva dire di godere di ottima salute. La dipartita di suo fratello, poi, l’aveva decisamente rianimata. Era stato come risvegliarsi da un incubo. Si era data da fare in casa al posto di sua madre. Era stato naturale per lei rifugiarsi in cucina. Luca aveva occupato la stanza dei genitori, mentre Matteo si era sistemato nel locale di disimpegno. Nel corso della giornata le loro condizioni erano peggiorate. La ragazza era salita al piano di sopra per informarsi dello stato di Luca. Suo fratello maggiore era scosso dai brividi e la febbre si stava alzando. Con tutta probabilità anche Matteo versava nelle stesse condizioni.
«Non andare da loro!»
Anna si era materializzata sulla scala come un fantasma. Il volto disfatto, gli occhi due ferite che sgorgavano dolore. Maria non si sarebbe aspettata che uscisse dalla camera di Giovanni, dopo le raccomandazioni che aveva dato ai figli.
«Ce l’ho anch’io. Tanto vale che mi prenda cura di voi.»
Maria non si oppose. Non era abituata a discutere la volontà di sua madre. La informò dello stato di salute dei fratelli, dopodiché riprese a svolgere le sue mansioni. Azzardò solo una domanda.
«Giovanni… cosa bisogna fare?»
Anna non ebbe la forza di risponderle. Nel modo plumbeo in cui era scesa tre gradini dalle stanze del primo piano, così scomparve di nuovo sulla scala.
Luca morì due giorni dopo, nel cuore della notte. Nell’ultima ora di agonia i suoi spasmi avevano strappato suoni inarticolati alla sua gola. La febbre non gli aveva dato tregua finché il cuore non si era fermato. Sua madre aveva esaurito le lacrime fin dal giorno prima, allorché Matteo, il suo Matteo, quello che aveva sempre una parola gentile per tutti, se ne era andato senza proferirne una, da solo, in silenzio.
Se anche avesse avuto una sola possibilità di ripresa, la fine dei suoi tre figli gettò Anna in uno stato di prostrazione insanabile. Poche ore dopo la morte di Luca, mentre continuava a fissare il viso di Maria che, contravvenendo a qualunque ordine, le teneva ostinatamente la mano, gli occhi della donna si velarono e la luce che li alimentava si prosciugò.
Maria restò sola. Pose il capo sul ventre di sua madre e cinse la sua salma ossuta fino ad addormentarsi. Si svegliò che era giorno fatto. Il ricordo dei familiari la travolse come una fiumana capace di abbattere qualunque argine. Le ci volle un’immensa forza, qualcosa che non credeva nemmeno di possedere, per restare a galla. Fu forse lo spirito indomabile dei suoi diciassette anni a rimetterla in piedi. Come un automa si mise a fare un po’ d’ordine in casa, con la scopa di paglia iniziò a spazzare le foglie all’ingresso. Il vento gelido penetrò nella cucina e sparpagliò la cenere inerte del camino. Maria appoggiò la scopa al muro, all’esterno, senza preoccuparsi di rimetterla a posto. Il suo mondo era stato capovolto. I cancelli dell’inferno si erano aperti e i demoni continuavano a impazzare scatenati attorno alle carcasse dei defunti. Bisognava sbatterli fuori, ricacciarli nell’abisso dal quale erano giunti. Non le venne neppure in mente di chiamare il prete, non ci sarebbero state esequie, nessuno sarebbe stato testimone di quel che era accaduto. Per quanto fosse orribile, Maria avrebbe scavato una fossa e vi avrebbe deposto la sua famiglia. Sotto il grande castagno, a un centinaio di passi dalla parete a nord della cascina, le parve di individuare un punto in cui il terreno era meno ghiacciato. L’operazione si presentava già di per sé gravosa, non sarebbe stata disposta anche a fare fatica. La ragazza iniziò a scavare. Il badile che Luca aveva reso liscio a furia di usarlo affondava inesorabile nel terriccio umido. La sua azione era quasi silenziosa, confusa fra i rumori impercettibili del bosco. Ad un tratto dovette fermarsi. L’attrezzo aveva toccato qualcosa che non era né terra, né radici, né muschio. Là sotto c’era qualcosa che non doveva essere riportato alla luce. Maria non si perse d’animo, anche se nuove lacrime le rigarono le guance. Il suo sforzo si fece più risoluto. Si mise a scavare di lato alla buca che aveva aperto. Quando fu certa di aver creato uno spazio abbastanza capiente, rientrò in casa. Ne venne fuori trascinando il corpo prima di sua madre, poi di Luca che era il più pesante, quindi di Matteo che, al contrario, pareva fatto di aria. Non ebbe il coraggio di andare a prendere Giovanni. Maria temeva che quelle pozze nere si riaprissero all’improvviso e la trascinassero con sé.
La mamma teneva una piccola tanica di alcool sotto l’acquaio della cucina. Preferiva averlo sott’occhio soprattutto dopo che Giovanni lo aveva sottratto dalla stalla per incendiare i passerotti. Maria non sapeva bene come fare. In realtà lo aveva immaginato tante volte, quando aveva udito i lamenti delle creaturine che suo fratello tormentava. Le sue, tuttavia, erano solo fantasie. Questa volta, invece, avrebbe dovuto farlo davvero. Prese la tanica e la scatola dei fiammiferi e salì in camera di Giovanni. Cosparse come meglio riuscì il corpo. Non aveva la certezza che sarebbe bastato. Accese un fiammifero e lo accostò all’orlo delle lenzuola. La fiamma percorse immediatamente la striscia umida che Maria aveva tracciato e si propagò su tutto il letto. In men che non si dica una vampa immensa si innalzò verso il soffitto. Maria, terrorizzata, colpì inavvertitamente con un piede la tanica sul pavimento e versò il liquido dappertutto. Un calore insopportabile si impadronì della stanza. Prima di uscire, la ragazza si voltò verso quello che restava di suo fratello. Nell’intreccio irregolare e cangiante del fuoco le parve di scorgere due fessure nere che la scrutavano e un sorriso largo e beffardo come quello di una tagliola.
Prima che la casa fosse completamente divorata dalle fiamme, Maria andò a liberare la vacca che non si era ancora accorta di nulla. Le mise una corda al collo e la trascinò via dalla stalla. La bestia mansueta non oppose resistenza. Con un piccolo fagotto delle sue cose, Maria si incamminò sul sentiero che l’avrebbe portata a Fabiasco e poi chissà. Non si fermò nemmeno una volta ad osservare gli ultimi istanti della cascina della Piana.